Luigi Grechi
Luigi
Grechi.
Leggendo questo nome forse non lo diresti mai chi è lui.Sentendolo cantare magari nella voce qualcosa ti suona familiare, il timbro più o meno l'ho hai già ascoltato altre volte, evoca qualcosa nella mente, e come fosse un profumo ti riporta ad una sensazione provata tanto tempo fa.Ma questa voce ti sembra un po' più vecchia, un po' più stanca di quella che ti era venuta in mente un attimo prima.E poi questo nome: Luigi Grechi. Luigi Grechi, Luigi De Grechi,?! Luigi De Gregori!!!Eccolo : DE GREGORI! LUIGI DE GREGORI! E' lui!Luigi Grechi altri non è che il fratello del “Principe” Francesco.
Forse se sei nel pieno degli anni settanta e di nome fai Luigi De Gregori, metterti a fare il cantautore non è esattamente l'idea migliore che ti potesse balzare in testa: Francesco è già conosciuto, soprattutto ha talento come pochi, e non è il caso di dare sempre adito al paragone o arrivare al successo nella qualità di “fratello” d'arte.Ed è per questo che Luigi, sebbene primogenito, decide di conservare il cognome della mamma, Rita Grechi.E poi Luigi è uno che vive un po' in sordina, che non ama i riflettori, non ama la ribalta.Ama la chitarra, e il tabacco. E la libertà, soprattutto.“Accusato di libertà” è il titolo geniale che dà al suo primo lavoro.Nell'album è presente anche “Buonanotte Nina” un pezzo scritto dal giovanissimo Francesco e i suoni folk la fanno da padrona: qualche pianoforte, l'armonica qui e lì, un po' di percussioni.Il resto sono chitarre acustiche che si rincorrono, i bassi degli accordi ben marcati per creare scale e dare ritmo, riff in serie ed arpeggi. Quello che conta, sopra ogni cosa, sono le parole.Parole usate magistralmente, per creare immagini dense di poesia come nella dolcissima “Pastore di Nuvole” che ci regala lo struggente (auto) ritratto di un uomo stanco, sempre alla ricerca di sé, fondamentalmente infelice ma che riesce comunque guardare avanti perché, dopotutto, “un uomo è quello che mangia ma anche i sogni che si porta nel cuore”, o parole miste ad ironia come quando canta ”Eccolo lo stronzo, eccolo che arriva, è pronto a cantarvi anche “La Locomotiva” per prendersi gioco di sé e dei suoi colleghi e alleggerire il clima nel quale versava la canzone d'autore italiana.Parole usate come un treno per rincorrere donne perdute per sempre, come in “Dublino”, dove la gente è criminale perché alle dieci e mezza chiude i Bar e dove il Nostro resta fermo alla stazione cercando risposte che non ha, con la consapevolezza che “tutto quel che resta di noi due è una canzone che non canto più.”Parole avvolte da una nuvola di simbolismo e di religione, in “Angelo di Lyon”, canzone misteriosa come misterioso è l'amore.Parole usate per raccontare leggende.Una in particolare.Quella di Sante Pollastro e Constante Girardengo, due amici ciclisti separati dal destino, uno che con la bici ci correva perché “Bandito” e l'altro perché “Campione”, naturalmente.E' proprio così: il brano “Il Bandito e Il Campione” è frutto della penna (e della chitarra) di Luigi Grechi.Poi ci penserà il “Principe” a relegarlo nell'immaginario collettivo quando nel 1993 la reinterpreta e il brano diventa il title track del suo album live.Proprio nel '93 Luigi si aggiudica il “Premio Tenco” come autore della migliore canzone dell'anno.Il “Bandito e il Campione”, dicevo: “Due ragazzi del borgo, cresciuti troppo in fretta, un'unica passione”.Stop.Fermiamoci un secondo.
E se questa “passione” non fosse la bicicletta, ma la chitarra?E se questo “incrocio di destini in una strana storia” fosse proprio quello di Francesco e di Luigi?Di sicuro non avremmo nessuna difficoltà a riconoscere il Bandito dal Campione: chi canta per rabbia e chi per amore.Il Campione che entrerà di diritto nei libri di letteratura, e il Bandito che di notte spara e centra i fanali per non farsi riconoscere, per non farsi vedere chiaro in faccia.Per scelta, ovviamente. Ma anche per destino.
Perché magari qualche volta alla gloria mancata ci pensa anche lui. Ogni tanto, tra un accordo e l'altro. Magari accenna una curva sulle labbra, come fosse un sorriso. E tornando a casa, mentre spegne l'ultima sigaretta della giornata, ripensa ad una sua canzone che fa così: “ho lavorato al porto, ho comprato ed ho venduto ...e sarei ricco e famoso se non fossi sconosciuto.”
Ma tu non sei sconosciuto, Luigi. Sei solo un Bandito.
Leggendo questo nome forse non lo diresti mai chi è lui.Sentendolo cantare magari nella voce qualcosa ti suona familiare, il timbro più o meno l'ho hai già ascoltato altre volte, evoca qualcosa nella mente, e come fosse un profumo ti riporta ad una sensazione provata tanto tempo fa.Ma questa voce ti sembra un po' più vecchia, un po' più stanca di quella che ti era venuta in mente un attimo prima.E poi questo nome: Luigi Grechi. Luigi Grechi, Luigi De Grechi,?! Luigi De Gregori!!!Eccolo : DE GREGORI! LUIGI DE GREGORI! E' lui!Luigi Grechi altri non è che il fratello del “Principe” Francesco.
Forse se sei nel pieno degli anni settanta e di nome fai Luigi De Gregori, metterti a fare il cantautore non è esattamente l'idea migliore che ti potesse balzare in testa: Francesco è già conosciuto, soprattutto ha talento come pochi, e non è il caso di dare sempre adito al paragone o arrivare al successo nella qualità di “fratello” d'arte.Ed è per questo che Luigi, sebbene primogenito, decide di conservare il cognome della mamma, Rita Grechi.E poi Luigi è uno che vive un po' in sordina, che non ama i riflettori, non ama la ribalta.Ama la chitarra, e il tabacco. E la libertà, soprattutto.“Accusato di libertà” è il titolo geniale che dà al suo primo lavoro.Nell'album è presente anche “Buonanotte Nina” un pezzo scritto dal giovanissimo Francesco e i suoni folk la fanno da padrona: qualche pianoforte, l'armonica qui e lì, un po' di percussioni.Il resto sono chitarre acustiche che si rincorrono, i bassi degli accordi ben marcati per creare scale e dare ritmo, riff in serie ed arpeggi. Quello che conta, sopra ogni cosa, sono le parole.Parole usate magistralmente, per creare immagini dense di poesia come nella dolcissima “Pastore di Nuvole” che ci regala lo struggente (auto) ritratto di un uomo stanco, sempre alla ricerca di sé, fondamentalmente infelice ma che riesce comunque guardare avanti perché, dopotutto, “un uomo è quello che mangia ma anche i sogni che si porta nel cuore”, o parole miste ad ironia come quando canta ”Eccolo lo stronzo, eccolo che arriva, è pronto a cantarvi anche “La Locomotiva” per prendersi gioco di sé e dei suoi colleghi e alleggerire il clima nel quale versava la canzone d'autore italiana.Parole usate come un treno per rincorrere donne perdute per sempre, come in “Dublino”, dove la gente è criminale perché alle dieci e mezza chiude i Bar e dove il Nostro resta fermo alla stazione cercando risposte che non ha, con la consapevolezza che “tutto quel che resta di noi due è una canzone che non canto più.”Parole avvolte da una nuvola di simbolismo e di religione, in “Angelo di Lyon”, canzone misteriosa come misterioso è l'amore.Parole usate per raccontare leggende.Una in particolare.Quella di Sante Pollastro e Constante Girardengo, due amici ciclisti separati dal destino, uno che con la bici ci correva perché “Bandito” e l'altro perché “Campione”, naturalmente.E' proprio così: il brano “Il Bandito e Il Campione” è frutto della penna (e della chitarra) di Luigi Grechi.Poi ci penserà il “Principe” a relegarlo nell'immaginario collettivo quando nel 1993 la reinterpreta e il brano diventa il title track del suo album live.Proprio nel '93 Luigi si aggiudica il “Premio Tenco” come autore della migliore canzone dell'anno.Il “Bandito e il Campione”, dicevo: “Due ragazzi del borgo, cresciuti troppo in fretta, un'unica passione”.Stop.Fermiamoci un secondo.
E se questa “passione” non fosse la bicicletta, ma la chitarra?E se questo “incrocio di destini in una strana storia” fosse proprio quello di Francesco e di Luigi?Di sicuro non avremmo nessuna difficoltà a riconoscere il Bandito dal Campione: chi canta per rabbia e chi per amore.Il Campione che entrerà di diritto nei libri di letteratura, e il Bandito che di notte spara e centra i fanali per non farsi riconoscere, per non farsi vedere chiaro in faccia.Per scelta, ovviamente. Ma anche per destino.
Perché magari qualche volta alla gloria mancata ci pensa anche lui. Ogni tanto, tra un accordo e l'altro. Magari accenna una curva sulle labbra, come fosse un sorriso. E tornando a casa, mentre spegne l'ultima sigaretta della giornata, ripensa ad una sua canzone che fa così: “ho lavorato al porto, ho comprato ed ho venduto ...e sarei ricco e famoso se non fossi sconosciuto.”
Ma tu non sei sconosciuto, Luigi. Sei solo un Bandito.
Piero Ciampi
Piero Ciampi amava le donne tanto
quanto amava il vino.
E il vino lo amava alla follia.
Piero Ciampi, livornese di nascita, parigino di adozione.
Piero che non aveva sbagliato solo la nazione in cui nascere, ma probabilmente, anche il secolo. Piero fuori dagli schemi, dai versi che sanno di rabbia, di delusione, di vino e di donne perse per sempre.
Piero il bohemien, il disfattista che mandava tutto all’aria proprio sul più bello per colpa di un carattere troppo irrequieto e instabile.
Piero il poeta che sicuramente badava all’amore, ma di certo non al denaro né al cielo. Piero fuori dal suo tempo, decisamente lontano dai canoni della canzone italiana dei primissimi anni sessanta: una canzone che ancora non aveva scoperto la poesia di De Andrè o l’imprevedibilità dei versi di Gaber, che al limite si apprestava ad ascoltare le canzoni d’amore di Gino Paoli o quelle decisamente più struggenti di Tenco.
Una canzone tutto sommato ancora “vergine” e spensierata. Dove, neanche a dirlo, la parola “amore” quasi sempre faceva rima con “amore”. E in questo contesto non c’è mica spazio per un tale che usa parolacce, che manda ripetutamente affanculo una donna perché le non ricambia l’amore, per uno che spende tutto quello che ha in vino e in gioco d’azzardo e che le canzoni spesso non le canta, piuttosto le recita. Probabilmente non ancora era pronto questo Paese ad un certo modo vivere, di fare, di parlare. Allora era meglio partire da lontano, magari meglio partire dalla Francia dove gli “chansonnier” (Brassens su tutti) erano stimati ed aprrezzati. E così Piero l’italiano, o meglio, “l'italianó” , (tronco e apostrofato, come si faceva chiamare agli esordi francesi perché quel nome suonava bene e piaceva tanto) riesce a farsi apprezzare in certi ambienti parigini per le sue poesie cantate e per il suo modo di fare eccentrico e naturale, ma dopo una piccola parentesi il suo carattere sempre imprevedibile lo riporta in Patria dove incide il primo disco con il nome di “Piero Litaliano” (questa volta senza accento e senza apostrofo). Ma i suoi versi non faranno breccia, Piero non riuscirà a sfondare né a farsi conoscere al grande pubblico ma resterà comunque sempre aggrappato a qualche etichetta che gli assicurerà le registrazioni in studio. Tutto quello che guadagna, Piero, lo spende sempre in alcool. Non è una vita semplice la sua: mai stabile, economicamente ed affettivamente disastrosa, senza mai una fissa dimora. Livorno comunque era e resterà “fino all’ultimo minuto” il suo unico rifugio sicuro: “Io non ho lasciato il mio cuore a San Francisco. Io ho lasciato il mio cuore sul porto di Livorno”. Più chiaro di così!? La guerra di Piero è un’odissea continua tra composizione di capolavori, collezione di insuccessi e bottiglie di vino da scolare. “ Chieder perdono non è peccato” , “L’amore è tutto qui”, “Hai lasciato a casa il tuo sorriso”, “Adius”: quando parla di storie d’amore; “Te lo faccio vedere chi sono io” “Non siamo tutti eroi” “Il vino” quando parla di sé. “Ha tutte le carte in regola per essere un artista” dice di sé “ha un carattere melanconico beve come un irlandese/ se incontra un disperato non chiede spiegazioni/ divide la sua cena con pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati scrittori monchi.” Il suo manifesto bohemien, il ritratto di una vita vissuta all’estremo, scandita da un disillusione di fondo, quasi rassegnata. Il ritratto di un uomo che decisamente ha vissuto male la sua vita, ma l’ha fatto con grande amore.
E il vino lo amava alla follia.
Piero Ciampi, livornese di nascita, parigino di adozione.
Piero che non aveva sbagliato solo la nazione in cui nascere, ma probabilmente, anche il secolo. Piero fuori dagli schemi, dai versi che sanno di rabbia, di delusione, di vino e di donne perse per sempre.
Piero il bohemien, il disfattista che mandava tutto all’aria proprio sul più bello per colpa di un carattere troppo irrequieto e instabile.
Piero il poeta che sicuramente badava all’amore, ma di certo non al denaro né al cielo. Piero fuori dal suo tempo, decisamente lontano dai canoni della canzone italiana dei primissimi anni sessanta: una canzone che ancora non aveva scoperto la poesia di De Andrè o l’imprevedibilità dei versi di Gaber, che al limite si apprestava ad ascoltare le canzoni d’amore di Gino Paoli o quelle decisamente più struggenti di Tenco.
Una canzone tutto sommato ancora “vergine” e spensierata. Dove, neanche a dirlo, la parola “amore” quasi sempre faceva rima con “amore”. E in questo contesto non c’è mica spazio per un tale che usa parolacce, che manda ripetutamente affanculo una donna perché le non ricambia l’amore, per uno che spende tutto quello che ha in vino e in gioco d’azzardo e che le canzoni spesso non le canta, piuttosto le recita. Probabilmente non ancora era pronto questo Paese ad un certo modo vivere, di fare, di parlare. Allora era meglio partire da lontano, magari meglio partire dalla Francia dove gli “chansonnier” (Brassens su tutti) erano stimati ed aprrezzati. E così Piero l’italiano, o meglio, “l'italianó” , (tronco e apostrofato, come si faceva chiamare agli esordi francesi perché quel nome suonava bene e piaceva tanto) riesce a farsi apprezzare in certi ambienti parigini per le sue poesie cantate e per il suo modo di fare eccentrico e naturale, ma dopo una piccola parentesi il suo carattere sempre imprevedibile lo riporta in Patria dove incide il primo disco con il nome di “Piero Litaliano” (questa volta senza accento e senza apostrofo). Ma i suoi versi non faranno breccia, Piero non riuscirà a sfondare né a farsi conoscere al grande pubblico ma resterà comunque sempre aggrappato a qualche etichetta che gli assicurerà le registrazioni in studio. Tutto quello che guadagna, Piero, lo spende sempre in alcool. Non è una vita semplice la sua: mai stabile, economicamente ed affettivamente disastrosa, senza mai una fissa dimora. Livorno comunque era e resterà “fino all’ultimo minuto” il suo unico rifugio sicuro: “Io non ho lasciato il mio cuore a San Francisco. Io ho lasciato il mio cuore sul porto di Livorno”. Più chiaro di così!? La guerra di Piero è un’odissea continua tra composizione di capolavori, collezione di insuccessi e bottiglie di vino da scolare. “ Chieder perdono non è peccato” , “L’amore è tutto qui”, “Hai lasciato a casa il tuo sorriso”, “Adius”: quando parla di storie d’amore; “Te lo faccio vedere chi sono io” “Non siamo tutti eroi” “Il vino” quando parla di sé. “Ha tutte le carte in regola per essere un artista” dice di sé “ha un carattere melanconico beve come un irlandese/ se incontra un disperato non chiede spiegazioni/ divide la sua cena con pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati scrittori monchi.” Il suo manifesto bohemien, il ritratto di una vita vissuta all’estremo, scandita da un disillusione di fondo, quasi rassegnata. Il ritratto di un uomo che decisamente ha vissuto male la sua vita, ma l’ha fatto con grande amore.